Le due vite
dei prigionieri di guerra
SACCO (Salerno) – Ci sono stati uomini che hanno vissuto più vite, loro malgrado. Vite anche radicalmente differenti l’una dall’altra. “Scherzi” della guerra, verrebbe da dire nel caso di Giuseppe Polito, nato a Sacco (paese in provincia di Salerno) nel 1914, italiano fino al 1941, poi indiano e australiano fino al 1946 e, infine, di nuovo italiano per il resto dei suoi giorni.
A ricostruirne la storia è Silvio Masullo (nella foto), concittadino di Polito: professione, segretario generale di enti locali, ma Masullo è anche giornalista e scrittore. E proprio la sua passione per le ricerche l’ha portato a ritrovare, circa un mese fa, in Australia i documenti personali di Polito, che fu fatto prigioniero il 4 gennaio 1941 a Bardia dove gli alleati, comandati da un generale australiano, sconfissero gli italiani nell’ex colonia libica. “Ho ritrovato quei documenti grazie alla storica australiana Joanne Tapiolas – spiega Masullo – : mi ero infatti imbattuto in una sua pubblicazione del 2017, ‘Walking in their Boots: Italian Prisoners of War in Queensland 1943-1946’ e, da lì, sono riuscito a ricostruire tutto” (leggete qui i documenti consultati da Masullo: Giuseppe Polito and the italian prisoners).
Scopriamo così che Giuseppe Polito, dopo quella battaglia, finì prigioniero come accadde ad altri 36.000 militari (alcuni storici ne hanno calcolati addirittura 40.000) catturati dall’esercito alleato capitanato dal generale australiano Iven MacKay. E rientrò in Italia soltanto alla fine del ’46. Ma dove fu portato e come visse per tutti quegli anni? “Era proprio questo che mi incuriosiva – prosegue Masullo – : disponevo soltanto della generica informazione di una destinazione australiana, della quale parlava qualche volta ad un uditorio vagamente interessato. Ci incuriosiva la sua abitudine di bere il tè con le arachidi, facendolo cadere dall’alto con movimenti armoniosi e ritmati, retaggio evidente di una precedente vita. Dopo diversi e infruttuosi tentativi, diretti ad una serie di campi di prigionia, ci sono riuscito proprio grazie alla storica australiana Joanne Tapiolas”.
E quella che ne è venuta fuori è una storia di fatto sconosciuta ma comune a migliaia di altri italiani: basti pensare che nel periodo 1941-1944 circa 18.000 prigionieri italiani arrivarono in Australia, impiegati in larga parte nelle aziende agricole e nei progetti di irrigazione governativi, e che a guerra finita il dieci per cento di questi vi ritornò con la sponsorizzazione delle famiglie per le quali avevano lavorato. Situazioni lontane anni luce da quelle dei militari italiani internati nei lager nazisti. “L’umanità degli australiani è dimostrata, oltre che dal numero rilevante dei ritorni dopo il 1950, dal fatto che 92 italiani si resero irreperibili al momento di ritornare in patria”, spiega Masullo.
L’inizio della prigionia, però, per Giuseppe (nella foto, in divisa) non fu semplice. “Dal 1941 al 1945 le notizie di Giuseppe sono meno puntuali. Da un campo di prigionia anglo-egiziano era stato trasferito in India. Gli internati venivano trattati dai carcerieri in maniera accettabile, non disumana, ma non erano sopportabili le condizioni climatiche, che si aggiungevano al cibo, all’acqua di scarsa qualità, ad un’assistenza sanitaria inadeguata. In tanti si ammalarono di tifo, malaria e beriberi e persero la vita”.
Le prospettive e le condizioni di vita si ribaltarono decisamente in Australia. Imbarcato a Bombay sulla nave “Generale William Mitchell”, con altri 2.076 connazionali, arrivò in Australia, al porto di Melbourne, il 13 febbraio 1945. “Lì fu identificato come PWIX (Prisoner of war italian profascist) 68172 e venne assegnato con altri 155 compagni a Karrakatta in attività di riconversione di aree e materiali post bellici dal 24 febbraio al 25 luglio 1945. L’ultima tappa, il 25 luglio 1945, fu la più gradita: una fattoria a Dalwallinu dove ritrovò il contesto ideale per chi, come lui, si era sempre dedicato al lavoro nei campi” (nella foto, soldati italiani all’opera nei campi in Australia). La guerra era finita da ormai da tre mesi e Giuseppe venne trattato come un componente della famiglia: gli fu affidato un trattore per arare, accudì il bestiame e gli venne liquidata anche una paga. “La famiglia che lo ospitava – racconta Masullo – aveva ogni forma di premura nei suoi confronti, come quando gli sostituirono con un altro salume il bacon da lui non gradito”.
Poi, arrivò il momento del rientro. Giuseppe fu imbarcato sulla Chitral il 30 settembre 1946, con altri 2.797 connazionali (dei quali 51 ufficiali) che approdò a Napoli il 30 ottobre. In paese ritrovò la moglie Amelia, il figlio Carmine (due anni dopo nacque Antonio) e il suo lavoro in agricoltura. “E restò, non accettando l’invito della fattoria australiana, che non aveva dimenticato la sua serietà sul lavoro, di emigrare nel continente dei canguri”.
Dell’Australia, però, conserverà sempre un ricordo affettuoso. “Da là – conclude Masullo – aveva portato un ricamo di sua produzione, dal forte valore religioso e simbolico. Raffigurava la Madonna degli Angeli, che in paese gode di grande devozione e si festeggia il 2 agosto, la data più importante dell’anno per i sacchesi, che rientrano da mezzo mondo per partecipare alla processione per le vie del paese”.
Nella foto sotto, da destra: Giuseppe Polito, sua moglie Amelia ed altri familiari (foto di Eliana Di Matteo)